31 ottobre 2008

INTERVENTO IN COMMISSIONE

ANTIPROIBIZIONISMO / UNA STRATEGIA POLITICA

Il titolo della commissione sottolinea l’aspetto della scelta individuale; cioè la forzatura che il proibizionismo opera sul diritto liberale inventandosi reati in cui non solo non c’è vittima ma nemmeno una condotta che possa farne prevedere una, come accade con le ultime normative Giovanardi che impongono etilometro e test antidroga a tutti, anche a chi non guida, anche a chi guida rispettando tutte le regole del codice della strada. Questa impostazione, che si concentra sulla tutela dei diritti del cittadino, nel caso del proibizionismo su droga e prostituzione, è corretta, ma si presta a facili confusioni e confutazioni fra facoltà, diritto, diritto biologico ecc.; certo, se anche drogarsi, prostituirsi o, per fare un altro esempio, abortire, non è un diritto ma una facoltà, resta il fondamentale e inalienabile diritto a disporre del proprio corpo e della propria persona come meglio piace a ciascuno, nei limiti del rispetto dei corpi e delle persone altrui; ma un fermo richiamo all’antiproibizionismo come strategia sociale è necessario per non opporre all’integralismo della posizione espressa dal governo oggi al potere, (abbiamo sentito giovanardi affermare che il drogato è spazzatura e che la fini giovanardi va inasprita , maroni minacciare il ritiro della patente per chi ha subito condanne relative agli stupefacenti), un altrettanto integralista lassismo come quello che ha guidato i governi di centrosinistra che poco hanno fatto, lasciando che tutto restasse come prima senza cambiare quasi niente.
Lo stesso discorso si può applicare alla prostituzione, cioè al proibizionismo applicato ai diritti sessuali, ma sempre e comunque al diritto di disporre del proprio corpo e della propria persona; anche in questo caso è necessario superare le opposte esagerazioni che vedono da una parte minacciare sanzioni a chi si prostituisce, oltre che ai clienti, e voglio vedere come faranno a distinguere tra clienti e fidanzati, dall’altra il più bieco permissivismo sui fenomeni terribili di riduzione in schiavitù che abitano le nostre città.
L’ antiproibizionismo come scelta economica e politica, scelta liberale anche di mercato, che libera dalle mani di criminali incalliti risorse finanziarie immense, scelta di salute pubblica attraverso corretta informazione sugli usi e sugli abusi, che non è fare del terrorismo mediatico come fa giovanardi, ma per esempio interrogarsi sulle analogie che fenomeni sociali del tutto percepiti come diversi da loro abbiano la stessa matrice di ignoranza.
Analizziamo qualche dato, anche se molti dei dati, trattando di fenomeni illegali quindi clandestini, sono in realtà stime; una relazione del ministero degli interni, che analizza gli anni dal 1990 al 2006, ci dà il numero di 500.000 circa tossicodipendenti segnalati, preferisco dire persone segnalate come tossicodipendenti. E’ interessante questa analisi perché il 1990 è l’anno di emanazione della Iervolino Vassalli, legge proibizionista che, nel titolo dedicato alla repressione delle sostanze illecite, iniziava con le parole: “È vietato l'uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope” ( è il comma 1 poi abrogato per referendum radicale vinto nel 1993 ) e che segnava l’inizio di una collaborazione italiana nelle politiche proibizioniste dell’Onu. Dal 1990 al 2006, la progressione è in netta ascesa, non solo nel numero dei segnalati, ma anche delle sanzioni erogate. Dopo 15 anni di proibizionismo, il numero dei segnalati si è triplicato (12000 nel 1990 37000 nel 2006), il numero delle sanzioni è quasi decuplicato (850 nel 1990 7200 nel 2006). Riguardo alla cannabis, nel 1990 le segnalazioni che la riguardavano erano il 42%, nel 2006 sono il 74%; fra le tendenze degli ultimi anni, che sono tendenze non solo italiane ma europee e internazionali si confermano la diminuizione dell’età di approccio, l’aumento del consumo di cocaina e del consumo di droghe sintetiche.
L’Osservatorio europeo stima in 4,5 milioni il numero di adulti che, in Europa, ha consumato cocaina nell’ultimo anno; la cocaina attualmente si contende il secondo posto fra le droghe più diffuse in Europa, dopo la canapa e alla pari con le droghe sintetiche. Il meccanismo attraverso il quale l’uso di cocaina è stato incentivato da parte dei distributori è lo stesso già collaudato più volte, quello che permise una rapida ascesa del consumo di eroina negli anni ’70. D’improvviso vengono a mancare gli altri tipi di droga in commercio e viene proposto un nuovo prodotto a prezzo promozionale; in realtà il mercato delle droghe illegali è saldamente organizzato a livello mondiale e ben poco sfugge ad un ferreo controllo centralizzato.
Anche la proliferazione di sostanze di sintesi risente delle politiche proibizioniste; la ricerca è clandestina, incontrollata, tesa alla creazione di molecole più “efficaci” e meno rilevabili, senza alcuna attenzione alla qualità e agli effetti nocivi.
Per la canapa, le modifiche genetiche operate su piante di canapa allo scopo di elevarne il contenuto in thc sono avvenute fuori da ogni controllo; alla fine, nessuno sa esattamente che cosa compra.
Non stupiscono quindi i recenti sequestri di psicofarmaci contrabbandati illegalmente ed usati insieme all’alcool; infatti la differenza tra psicofarmaco e sostanza psicoattiva non c’è, psicofarmaci, droghe e doping sono sfaccettature di uno stesso mercato, quello chimico-farmaceutico; le prime droghe di sintesi furono inventate nei laboratori delle industrie farmaceutiche e sarebbe assai ingenuo non ipotizzare uno scambio di informazioni tra industria legale e industria illegale.
Le distinzioni classiche tra droghe leggere e pesanti, tra spacciatore e consumatore, tra droga doping psicofarmaci sono fuorvianti; distraggono da distinzioni più precise e rappresentative.
Il fenomeno da prendere in considerazione è l’abuso e la dipendenza, non l’uso personale di droghe leggere e pesanti, che io vorrei radicalmente tutte legalizzati; sul consumo di cannabis, poi, in nome della strategia proibizionista, siamo arrivati alla aberrazione della violazione dei diritti dei malati che non hanno effettivo accesso in Italia ai farmaci derivati della canapa, alla violazione del diritto del cittadino ammalato o no alla libera determinazione dei propri comportamenti privati, nell’impedimento alla coltivazione domestica anche di una sola pianta di canapa, anche a malati con prescrizione medica; il cosiddetto spacciatore poi è figura totalmente inventata dal proibizionismo, dove altrimenti avremo venditori e consumatori.
La distinzione tra uso e abuso non viene sottolineata, mentre è fondamentale; non si può parlare di tossicodipendenza in presenza di un uso saltuario di farmaci o di droghe che dir si voglia, ricordo infatti come sempre che secondo la definizione dell’ Organizzazione mondiale della sanità i farmaci sono droghe e le droghe sono farmaci; d’ altra parte l’abuso e la dipendenza da qualsiasi sostanza, ma anche da qualsiasi alimento o addirittura comportamento, come è per le dipendenze da videopoker e tutti i moderni comportamenti compulsivi, produce seri danni economici e sociali. Nel caso delle sostanze illegali a questi danni si aggiunge quello rappresentato dai proventi delle attività illecite, che escono dalla contabilità ufficiale e vanno ad accrescere i flussi neri di denaro che in alcuni periodi e paesi superano i flussi legali. Si aggiunge anche la difficoltà di monitorare, controllare, definire sia i prodotti commerciati che la distribuzione; per esempio, non c’è controllo né sui pesticidi usati per le coltivazioni né sui tagli operati (la cocaina venduta in europa è pura in media al 45%); lo stesso discorso vale per il doping, dove laboratori semiclandestini producono barattoli di sostanze dubbie vendute poi sottobanco, e per la prostituzione dove nella clandestinità rivivono antiche schiavitù che sul nostro territorio preferiremmo non vedere, viste le lacrime e il sangue che ci sono voluti per uscirne.
C’è poi tutto l’indotto del proibizionismo, sotto forma di spese per la persecuzione dei reati e per le cosiddette comunità di recupero, mondo non privo di ombre inquietanti, sul quale interverrò in un’altra occasione.
Vorrei invece avviarmi alla conclusione con qualche dato storico, che ci aiuti ad inquadrare un po’ più da lontano il rapporto che la società umana ha intrattenuto e intrattiene con alcune piante.
La prima notizia scritta sul papavero da oppio compare su tavole sumeriche del III° millennio a.C. A Ippocrate, medico greco del V° secolo a.C. considerato uno dei padri della medicina occidentale, si deve la parola latina “opium”, traslato dal greco οπός μεκονος, succo di papavero. L’ uso di questa pianta è apparso fin dall’inizio terapeutico, per le sue grandi proprietà analgesiche, né ci dobbiamo dimenticare che tutti i farmaci antidolorifici traggono le loro origini dallo studio di piante come il papavero, la coca, la canapa, il caffè ecc.; poter controllare il dolore è sempre apparso legittimamente agli uomini come uno scopo per il quale valeva la pena ricercare e studiare. Non possiamo neanche immaginare cosa fosse la medicina prima che le proprietà dell’oppio venissero studiate e applicate, le sofferenze, i dolori che non potevano essere leniti, le operazioni senza anestesia; prima di dire che l’uso delle droghe è devastante si deve considerare quanto giovamento queste piante hanno portato all’umanità e quanto se usate nelle maniere giuste possano non essere devastanti, ma al contrario, benefiche.
Nel corso della storia umana le droghe hanno subito alterne fortune: proibite o ammesse, esaltate o demonizzate, sfruttate e raffinate da un’industria sempre più mirata. Così nel 1640 in Cina l’ultimo imperatore della dinastia Ming decretò la pena di morte per chi trafficasse o consumasse tabacco; la proibizione fece sì che si cominciasse a fumare oppio, fino ad allora consumato prevalentemente per via orale. Mentre i successivi imperatori manciù proibivano dapprima il commercio dell’oppio con gli europei e nel 1793 anche la coltivazione, lo stesso oppio, come principale ingrediente del laudano, entrava a far parte dell’armadietto dei medicinali di famiglia in tutta Europa dove rimarrà per due secoli, senza che la disponibilità generasse legioni di tossicodipendenti. Certo anche allora c’era qualche fenomeno di abuso, la dipendenza è una tendenza umana che si può manifestare in mille modi, ma la disponibilità non genera un aumento dei fenomeni di abuso, cosa che accade invece invariabilmente quando un l’uso di una sostanza viene vietato e punito.
Ci si chiede che differenza ci sia tra assumere psicofarmaci e drogarsi, se non una teorica differenza tra legalizzata e illegale, che moltiplica i profitti, e anche con quale perverso spirito di contraddizione in una Italia inondata di test antidroga e spot terroristici, si è riaperta la strada alla somministrazione di psicofarmaci ai bambini, il tanto discusso caso del Ritalin; quale differenza passi tra il doping per migliorare le prestazioni sportive e il Viagra; come si possa trattare in modo così diverso la vendita di caffeina tabacco alcool e quella di cocaina canapa o oppio. Perché dobbiamo tollerare l’ipocrisia di un proibizionismo di classe che consente ai più ricchi la soddisfazione di ogni vizio mentre agli altri viene tutto impedito? e i cartelloni che in autostrada ci invitano, se abbiamo sonno, a prenderci un caffè?
Il concetto di antiproibizionismo si contrappone ai metodi di regime, al potere autoritario, l’antiproibizionismo nella sua valenza di strategia di governo dei fenomeni sociali attraverso le armi nonviolente della comunicazione e dell’informazione, strategia nonviolenta, democratica e liberale.
I regimi autoritari hanno bisogno di conservare il potere con la paura e con le punizioni, con la repressione economica, con la limitazione dei diritti civili, con i privilegi e con le dinamiche di casta; una democrazia compiuta trova nel dibattito pubblico e nella libera informazione l’antidoto alla degenerazioni violente e alle crisi di sistema.

Claudia Sterzi, segretaria Associazione Radicale Antiproibizionisti @.r.a.
antiproibizionistiradicali@gmail.com

18 ottobre 2008

STERZI: NEONATO COMITATO SCIENTIFICO ANTIDROGA, SI PUO’ FARE DI PIU’

E’ di ieri l’annuncio della nascita di un Comitato Scientifico antidroga, dato a palazzo Chigi dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla droga, Carlo Giovanardi, e Giovanni Serpelloni, Capo Dipartimento Politiche Antidroga, E, accanto al Comitato, e' stata istituita anche la Consulta degli esperti e degli operatori, composta da 70 membri, ''una sorta di 'parlamentino' - ha spiegato Giovanardi - dove discutere le politiche antidroga''.
Il Presidente del neonato Comitato, Prof. Antonello Bonci, ha sobriamente dichiarato: ''I professionisti che fanno parte del comitato sono le persone migliori del mondo nei propri campi d'appartenenza . . .” ; con queste premesse, e al grido “Se ti droghi vai a piedi!” sono state illustrate le iniziative che si intendono avviare per contrastare le tragiche conseguenze dell’uso ( più esatto sarebbe dire “dell’abuso” ) di sostanze psicoattive.
Test antidroga ai lavoratori, test antidroga agli automobilisti, test antidroga per prendere la patente; per questi ultimi entro dicembre partirà la sperimentazione più volte annunciata a Perugia, Foggia, Verona e Cagliari.
Test antidroga e campagne pubblicitarie pseudoscientifiche sono le scarse e controverse misure che Giovanardi vanta, mentre la tragica realtà italiana consiste di carceri stracolme e di un mercato delle droghe illegali in espansione continua.
Ne parleremo anche domani, 17 ottobre, a Perugia, nel corso del dibattito che si terrà alle 16 nell’aula 2 della Facoltà di Scienze Politiche, Via Pascoli, dal titolo : “Proibizionismo e carceri: scarsi risultati a caro prezzo. Quali politiche alternative? “

Claudia Sterzi, segretaria Associazione Radicale Antiproibizionisti, antiproibizionistiradicali@gmail.com tel. 3381007330


Incontro sul tema
Proibizionismo: scarsi risultati a caro prezzo.

La situazione in Umbria. Quali politiche alternative?



Introduce

Prof. Giancarla Cicoletti, Sociologia del lavoro e delle organizzazioni, Facoltà di Scienze Politiche

Interventi programmati di:

Simonetta Bruschini, referente per le dipendenze del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza dell'Umbria

Mario Fringuello, maresciallo superiore dei Carabinieri – Polizia Giudiziaria di Perugia

Michele Rana, del SIAP ( Sindacato Italiano Appartenenti Polizia ), dirigente di Radicali Italiani

Claudia Sterzi, segretaria dell'Associazione Radicale Antiproibizionisti

Modera

Andrea Maori, direzione dell'Associazione Radicale Antiproibizionisti



Sono previsti interventi non programmati di altri docenti e dibattito con gli studenti

Gli studenti del corso di laurea in Scienze sociali e del Servizio sociale potranno acquisire un credito CFU




INTERVENTO ALL'UNIVERSITA' DI PERUGIA

di Claudia Sterzi



Vorrei per prima cosa rispondere ad una affermazione del maresciallo Fringuello che ha parlato ora ed ha affermato che “ l’uso di droghe è devastante”, perché è importante che l’informazione sia completa; l’uso di droghe non è devastante, casomai l’abuso e la dipendenza dalle droghe è devastante, non bisogna dimenticare che la parola droghe, in inglese drugs , in inglese ha conservato il significato sia di droga che di farmaco, in italiano si è creata una differenza tra droghe, farmaci, doping, mentre parliamo di fenomeni del tutto simili; secondo l’ Organizzazione Mondiale della Sanità le droghe sono farmaci e i farmaci sono droghe, tutto dipende dalle modalità di assunzione; l’assoluta mancanza di controllo e di analisi delle sostanze assunte, quindi la loro pericolosità, deriva in gran parte dalla loro illegalità e clandestinità.

Cominciamo da alcuni dati: la Polizia di Stato fornisce, attraverso il suo sito, le cifre della sua attività nel primo semestre 2008; in questo periodo sono state segnalate dai servizi antidroga all’ autorità giudiziaria, in Umbria, 412 persone, il 2,29 % del dato nazionale; nello stesso periodo infatti in Italia sono state segnalate circa 18.000 persone ( più di un quarto per eroina, che insieme a cocaina e hashish costituiscono la maggior parte delle sostanze sequestrate ), che vanno ad aggiungersi ai nove milioni di processi penali pendenti in Italia , con termine medio di attesa di sei anni superiore a tutti i parametri non solo europei, che vanno ad aggiungersi ai detenuti ospitati in carceri che non li possono contenere, di nuovo, in condizioni contrarie ad ogni diritto umano alla decenza. Lo dico perché l’ho visto con i miei occhi nel corso delle visite che come radicali abbiamo sempre fatto nelle carceri italiane, sono condizioni igieniche e di vita che non possono rieducare nessuno e in più della metà dei casi si applicano a detenuti in attesa di giudizio, quindi potenzialmente innocenti.
Il 27,6 % dei detenuti sono tossicodipendenti, il 2,5% sono alcooldipendenti, il 4,5% sono in trattamento metadonico, per un totale di 16.789 (34,6% del totale) persone malate rinchiuse in istituti di pena, e veramente di pena si tratta, in questo caso, come se essere tossicodipendenti non fosse già una pena di per sé.
Se si rilegge l’articolo 27 della Costituzione: "…Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato…" si può già concludere che tenere un tossicodipendente in carcere, nelle carceri italiane, è già di per sé contrario a qualunque senso di umanità; il tossicodipendente, colui che è dipendente e abusa di sostanze stupefacenti, è un malato e con umanità deve essere curato.
Magari riammodernando il termine di tossicodipendente, distinguendo tra uso e abuso, sforzandosi di uscire da un’ ottica proibitiva e punitiva, oltre la quale c’è solo la pena di morte, quell’ottica che portò nei secoli la società a dotarsi di prigioni sorvegliate e segregate; bisogna insistere sul rispetto della legge costituzionale, continuare in un processo culturale di innovazione e modernizzazione. La giustizia italiana è una giustizia perennemente in ritardo, in tutto, nei processi, nell’organizzazione, nelle notifiche, nell’aggiornamento anche tecnologico.
Parlando poi dell’aspetto economico, nel sito dell’ Osservatorio sulle droghe per l’anno 2006, troviamo una stima in termini economici, che calcola il costo della permanenza in carcere dei tossicodipendenti, escludendo il costo di terapie specifiche o da patologie correlate. La strategia proibizionista sul fenomeno dell’uso e abuso di sostanze psicotrope costa allo Stato, quindi a noi cittadini, circa un miliardo di euro l’anno.
Secondo la relazione annuale 2006 sulle droghe del Governo, riportato sempre dall’Osservatorio sulle droghe, 1,8 miliardi di Euro sarebbero le spese per l’apparato giudiziario e di polizia impegnato nell’azione di contrasto. E siamo a 2,8 miliardi di euro.
2,8 miliardi di euro spesi per combattere in termini proibizionisti e punitivi un fenomeno sociale; gioverà ricordare che il termine proibizionismo fu coniato in relazione a un particolare periodo della storia statunitense in cui era legalmente proibito produrre, importare, esportare e vendere bevande alcoliche. La strategia proibizionista durò dal 1919 al 1933 e fu totalmente fallimentare, oltre ad alimentare la malavita organizzata ( 500.000 nuovi criminali ) che visse in quei 14 anni un periodo di espansione e splendore.
Spesso gli effetti secondari, che in sociologia vengono definiti effetti perversi, delle decisioni legislative vengono trascurati; nel caso del proibizionismo come mezzo di controllo per i fenomeni sociali, questa trascuratezza è evidente. Gli effetti perversi, in termini di costi sia sociali che economici, superano di gran lunga i benefici.
Questa la realtà nostra. Sul sito dell’osservatorio europeo sulle droghe e sulla tossicodipendenza sono riportate le stime del consumo in Europa; si parla di stime in quanto trattandosi di un fenomeno clandestino e illegale non si può contare con certezza; per esempio i consumatori europei di cocaina sono stimati in 12 milioni, quindi un numero enorme che non si può continuare ad affrontare con le stesse strategie che ne hanno consentito l’aumento, si dovrà cominciare a sperimentare strategie alternative.
Dopo questi dati, cerchiamo di tracciare uno spazio storico dove situare i fenomeni sociali che stiamo prendendo in considerazione.
La prima notizia scritta sul papavero da oppio compare su tavole sumeriche del III° millennio a.C. A Ippocrate, medico greco del V° secolo a.C. considerato uno dei padri della medicina occidentale, si deve la parola latina “opium”, traslato dal greco οπός μεκονος, succo di papavero. L’ uso di questa pianta è apparso fin dall’inizio terapeutico, per le sue grandi proprietà analgesiche, né ci dobbiamo dimenticare che tutti i farmaci antidolorifici traggono le loro origini dallo studio di piante come il papavero, la coca, la canapa; poter controllare il dolore è sempre apparso legittimamente agli uomini come uno scopo per il quale valeva la pena ricercare e studiare. Non possiamo neanche immaginare cosa fosse la medicina prima che le proprietà dell’oppio venissero studiate e applicate, le sofferenze, i dolori che non potevano essere leniti, le operazioni senza anestesia; prima di dire che l’uso delle droghe è devastante si deve considerare quanto giovamento queste piante hanno portato all’umanità e quanto se usate nelle maniere giuste possano non essere devastanti, ma al contrario, benefiche.
Nel corso della storia umana le droghe hanno subito alterne fortune: proibite o ammesse, esaltate o demonizzate, sfruttate e raffinate da un’industria sempre più mirata. Così nel 1640 in Cina l’ultimo imperatore della dinastia Ming decretò la pena di morte per chi trafficasse o consumasse tabacco; la proibizione fece sì che si cominciasse a fumare oppio, fino ad allora consumato prevalentemente per via orale. Mentre i successivi imperatori manciù proibivano dapprima il commercio dell’oppio con gli europei e nel 1793 anche la coltivazione, lo stesso oppio, come principale ingrediente del laudano, entrava a far parte dell’armadietto dei medicinali di famiglia in tutta Europa dove rimarrà per due secoli, senza che la disponibilità generasse legioni di tossicodipendenti. Certo anche allora c’era qualche fenomeno di abuso, la dipendenza è una tendenza umana che si può manifestare in mille modi, ma la disponibilità non genera un aumento dei fenomeni di abuso, cosa che accade invece invariabilmente quando un l’uso di una sostanza viene vietato e punito.
Già allora i flussi di mercato e di denaro legati al consumo di droghe producevano guerre e conflitti sociali; nel 1729, quando viene decretato lo strangolamento per i contrabbandieri di oppio e i proprietari delle fumerie, il traffico clandestino di oppio dalla Cina all’Europa consiste in circa una tonnellata e mezzo. Una escalation di proibizionismo porterà nel secolo seguente questa cifra fino a 5000 tonnellate.
A fronte delle indubbie capacità medicinali di alcune piante, le loro potenzialità di provocare assuefazione, intossicazione e dipendenza le hanno rese e le rendono strumenti e giustificazione di guerre commerciali, spietati business, vere e proprie guerre civili.
Norbert Elias nel suo saggio di sociologia della conoscenza, "Coinvolgimento e distacco", ci spiega come l’eccessiva emotività impedisca di vedere le cose con il distacco necessario per una valutazione e azione incisiva; il livello di autocontrollo, dice, va di pari passo con il livello di controllo del processo. I due livelli sono interdipendenti e complementari. Una reazione emotiva intensa diminuisce la possibilità di giudicare realisticamente il processo critico e quindi di reagire in modo realistico e efficace.
Di fronte ad un fenomeno che coinvolge emotivamente tante persone ( pensiamo ai consumatori, agli indagati, alle famiglie degli indagati, agli avvocati, alle mafie produttrici, agli spacciatori e alle loro famiglie) è molto facile cadere in atteggiamenti integralisti e polarizzati: da una parte il drogato come il male assoluto, come spazzatura marcia della società, dall’altra la facile mitizzazione dei comportamenti illeciti e della insubordinazione all’ordine costituito.
L’ottica antiproibizionista esce da questi opposti e propone una strategia di legalità e di intelligenza del fenomeno che scoraggi l’abuso attraverso l’informazione senza demonizzare e senza mitizzare alcuno e alcunchè.
Non si tratta di difendere un fantomatico diritto a drogarsi; drogarsi non è un diritto, è una facoltà umana; si tratta di garantire che il soddisfacimento di questa facoltà non rechi conseguenze drammatiche.
Il Professor Fredrick Polak, psichiatra e psicoanalista olandese, membro della Fondazione per le politiche olandesi sulle droghe e consulente del dipartimento droghe città di Amsterdam, ha avvicinato di recente Antonio Costa, direttore esecutivo dell’ufficio ONU su droghe e crimine, per porgli questa semplice domanda: “In Olanda la cannabis è disponibile per tutti coloro che vogliano farne uso, sempre se maggiorenni. Non ci sono restrizioni sull’uso di cannabis e sul possesso di piccole quantità, ma il livello di consumo di cannabis dei giovani olandesi è più basso che negli altri paesi vicini. Come si spiega questo dato in netto contrasto con le teorie proibizioniste?” Attendiamo ancora, insieme a lui, una risposta dal dottor Costa.
L’Olanda è all’avanguardia anche nell’uso dei derivati della canapa come medicinale; è il Ministero della sanità olandese che si fa carico della coltivazione, produzione e distribuzione del Bedrocan, farmaco indicato per contrastare i sintomi di svariate malattie gravi come la sclerosi multipla o gli effetti collaterali delle chemioterapie.
Del resto recenti studi hanno messo a fuoco le doti antitumorali e neuroprotettive, ipotizzando non solo la funzione terapeutica nelle malattie degenerative del sistema nervoso, ma anche una funzione preventiva e di profilassi.
Se non bastassero, in tema di efficacia delle strategie proibizioniste, gli esempi del proibizionismo americano sull’alcool, quello del consumo di cannabis in Olanda e quello del contrabbando di oppio in Cina, vorrei portare altri due esempi:
in America, nel 1956, quando venne emanato il Narcotics Control Act, che inaspriva in senso proibizionista le leggi vigenti, il numero di americani in carcere per motivi legati al consumo di eroina è di circa 1000; nel ’60, dopo 4 anni, questo numero è decuplicato.
Un altro esempio lo troviamo trattando di tutto un altro argomento, del quale mi sono occupata per la mia tesi in sociologia dei processi culturali, sulle mutilazioni genitali femminili e su come la nostra società occidentale ha reagito all’arrivo delle donne immigrate coinvolte in questa pratica. In Sudan, nel 1946, vennero proibite severamente per legge le mgf, che venivano tradizionalmente effettuate su gran parte delle bambine sudanesi; il risultato ottenuto fu l’abbassamento repentino dell’età media della mutilazione, perché tutti i genitori si affrettarono ad operare le bambine prima che le legge entrasse in effettivo vigore.
Sulla osservazione della dottoressa Cicoletti, sull’ aspetto economico, certo parliamo di cifre enormi; infatti è molto più semplice trattare con i proibizionisti in buona fede, con i quali è comunque possibile trovare punti di incontro e mediazione; i problemi sorgono con i proibizionisti in mala fede, cioè coloro che dal proibizionismo traggono grandi guadagni. Intorno al traffico di sostanze stupefacenti, collegato al traffico di armi e di persone, girano interessi in stretta connessione con la politica internazionale; basta pensare al traffico di oppio talebano che finanzia il terrorismo. Legalizzando, secondo me, droghe e prostituzione, si dà, sì, un colpo formidabile alla mafia, ma anche si cambia la politica internazionale.
Grazie a tutti

5 ottobre 2008


DemBarCamp ottobre 2008 / esperimenti di democrazia diretta / sessione diritti umani e diritti civili


antiproibizionismo nonviolenza democrazia

DEMCAMP, intervento con aggiunte.

Buongiorno; vorrei intrattenervi una decina di minuti sulle interconnessioni fra antiproibizionismo, nonviolenza, democrazia,
e suscitare qualche riflessione sul tema delle azioni nonviolente come strumenti di partecipazione democratica diretta ed attiva.
L’ occasione che è stata di spunto è la costituzione dell’associazione radicale antiproibizionisti, della quale sono segretaria. Fin dall’inizio di questa esperienza ho considerato quanta vicinanza ci fosse fra il concetto di antiproibizionismo, contrapposto a metodi di regime, contrapposto al potere autoritario, l’antiproibizionismo nella sua valenza di strategia di governo dei fenomeni sociali attraverso le armi nonviolente della comunicazione e dell’informazione, fra l’antiproibizionismo e la nonviolenza da una parte e fra antiproibizionismo e democrazia dall’altra.
Fra le prime azioni nonviolente radicali molto rilievo ebbero, per esempio, ma sono ormai state dimenticate, le disobbedienze civili in tema di aborto. Il nodo centrale dell’iniziativa radicale era non certo quello di incentivare le donne ad abortire, bensì la riduzione di quella che era una piaga sociale, l’aborto clandestino, attraverso la legalizzazione, l’informazione, la comunicazione. Le conseguenze peggiori della legge proibizionista che allora vigeva, e vorrei ricordare, perché non è passato un secolo, ma soli 35 anni, che le donne ricoverate in ospedale per le complicazioni degli aborti clandestini venivano piantonate dai carabinieri che ne attendevano la dimissione per portarle in galera fra gli insulti che tutti si permettevano di rivolger loro, le conseguenze peggiori le subiva chi non aveva i soldi per andare a interrompere la gravidanza a Londra, o in una delle numerose cliniche italiane compiacenti. Il proibizionismo, quindi, come strategia classista produttrice di diseguaglianza, privilegi ed eccezioni, anche in questo senso antidemocratico; come dimostra anche l’ultima deriva proibizionista sulla droghe di Giovanardi & Co., nel suo voler sottoporre a test antidroga tutte le categorie fuori che, guarda caso, i parlamentari, le forze dell’ordine, i medici, cioè gli stessi che comandano ed eseguono il test a tutti gli altri.
I regimi autoritari hanno bisogno di conservare il potere con la paura e con le punizioni, con la repressione economica, con la limitazione dei diritti civili, con i privilegi e con le dinamiche di casta; una democrazia compiuta trova nel dibattito pubblico e nella libera informazione l’antidoto alla degenerazioni violente e alle crisi di sistema.
Purtroppo l’involuzione partitocratica della democrazia italiana non garantisce una libera circolazione delle classi dirigenti, perché ne limita l’accesso ed è viziata da nepotismo, clientelismo e familismo amorale. Lo strumento legislativo parlamentare rimane appannaggio di una maggioranza consolidata di potere, trasversale allo schieramento politico, di una classe dirigente che si autoriproduce da secoli.
Le teorie elitiste già dagli inizi del ‘900 hanno individuato il suffragio universale come necessario ma non sufficiente a garantire la democrazia; la democrazia rappresentativa finisce per selezionare una élite che non rappresenta affatto tutte le componenti della società bensì quelle già dominanti. Per questa ragione fu introdotto uno strumento per la correzione e il bilanciamento in favore della democrazia diretta, la seconda scheda, quella referendaria, strumento fortemente sostenuto e incentivato dai radicali, purtroppo svuotato e tradito. Svuotato di significato dagli inviti all’astensione, reso inattuabile dalle procedure estenuanti necessarie per proporlo, avvilito dalla mancata e corretta informazione, tradito più volte nei risultati.
Quindi un doppio legame: da una parte l’antiproibizionismo come strategia di governo democratico dei fenomeni sociali proposto in alternativa ai metodi proibizionistici violenti propri dei regimi autoritari, dall’altra la nonviolenza e le disobbedienze civili come forme di partecipazione diretta del cittadino al perfezionamento della democrazia.
Per questo le iniziative parliamentari e referendarie radicali antiproibizioniste su aborto, droga e prostituzione, portate avanti con testardaggine dai radicali negli ultimi 40 anni, hanno sempre avuto bisogno del sostegno della nonviolenza nelle forme di obiezione di coscienza, disobbedienze civili, digiuni, per riuscire ad ottenere significativi ma parziali, e spesso non attuati, risultati.
Insegnano i moderni maestri della sociologia che laddove un argomento di dibattito pubblico coinvolge profondamente ed emotivamente le persone è più frequente una polarizzazione estrema fra due atteggiamenti assoluti integralisti e contrapposti; i particolari e le eccezioni vengono rimossi dalla coscienza collettiva e l’argomento svuotato di contenuti viene offerto in simbolico pasto alle configurazioni di potere. Così per le mutilazioni genitali femminili l’opinione pubblica si è divisa fra assolutisti dell’ aumento delle pene e relativisti di “è la loro cultura”; così per le droghe non si va oltre la posizione “drogarsi è reato”, contrapposta a quella “lasciamo fare”; così nella politica internazionale i guerrafondai si contrappongono ai no global arcobaleno ecc.
L’antiproibizionismo e le armi nonviolente della informazione e della comunicazione, la libera circolazione delle idee, delle élites, delle merci e delle persone fanno intravedere una via di uscita e un antidoto alla violenza e all’integralismo che ci travolge.
Sono personalmente una disobbediente civile che si è presa quattro mesi di condanna, indultata, per cessione di canapa nel corso di una disobbedienza civile sul tema della canapa terapeutica; ho partecipato lo scorso anno ai lunghi scioperi della fame che hanno accompagnato la approvazione della risoluzione per la moratoria universale della pena di morte e sono anche oggi in sciopero della fame per la elezione di un giudice costituzionale e del presidente della commissione vigilanza della rai. Lo dico perché sono stati, per me, momenti nei quali mi sono sentita finalmente cittadina attiva.
La deriva proibizionista e autoritaria deve essere arginata e ridotta, reindirizzata; è una strategia fallimentare e criminale, che produce giri di interessi e di denaro, gran parte “al nero”, e dirige in senso distruttivo e non democratico, ingenti risorse. In nome della strategia proibizionista siamo arrivati alla violazione dei diritti dei malati laddove non hanno libero accesso ai farmaci, alla violazione del diritto del cittadino ammalato o no alla libera determinazione dei propri comportamenti privati, nell’impedimento alla coltivazione domestica anche di una sola pianta di canapa, anche a malati con prescrizione medica.