Un saluto a tutti gli ospiti e particolarmente a quelli di altri paesi, ai miei compagni transnazionali; un saluto alle interpreti, buongiorno e buon lavoro.
Questo è il mio primo intervento per il PRT, ed è una relazione. L’argomento della mia relazione è come la visione antiproibizionista radicale si stia rivelando, nella lunga durata, ragionevole e razionale e come questo può servirci nell’analisi che ieri abbiamo intrapreso in questo Consiglio Generale. Per svolgerla, prenderò spunto dai nuovi sviluppi nelle politiche sulle droghe nei paesi latino americani e in Portogallo, integrando con casi e dati da altre parti del mondo.
E’ necessario ricordare che cosa è l’antiproibizionismo radicale e come si è sviluppato nel tempo e nello spazio, seppure in modo sintetico e non del tutto dettagliato. La battaglia radicale sull’ antiproibizionismo inizia in Italia molti anni fa; fra le prime azioni radicali su questo argomento, la disobbedienza civile di Marco Pannella, nel 1975. In quell’ anno, per la legge italiana, che risale al 1954 non c'è differenza tra droghe leggere e pesanti, né tra spacciatore e consumatore.
Il Partito radicale è impegnato per la riforma della legge sulla droga e in particolare per impedire l'ingresso nel circuito carcerario e criminale dei consumatori di stupefacenti e dei tossicodipendenti. Il 2 luglio 1975 Marco Pannella convoca una conferenza stampa a Roma nel corso della quale fuma una sigaretta con hashish in pubblico; immediatamente arrestato e portato in carcere, riesce così ad aprire il dibattito pubblico sull'argomento.
Il commissario di polizia Ennio di Francesco che lo arresta, gli invia nei giorni seguenti un telegramma di solidarietà per il valore dell'iniziativa e viene rimosso dal suo incarico.
"Si trattava di far uscire dal carcere, allora, un gruppo di ragazzi. I ragazzi uscirono. Noi non facemmo dimostrazioni pubbliche a quell'epoca perchè, dopo 40 giorni, di 170 ragazzi detenuti ne rimasero in carcere solo 17".
A quella disobbedienza civile molte altre sono seguite e forse non tutti i nostri compagni non italiani sanno che alcuni dirigenti radicali, Marco Pannella e Rita Bernardini per primi, ma anche Sergio Stanzani, non possono essere candidati alle elezioni amministrative per questo motivo. Di pochi giorni fa un tentativo di estendere tale impedimento anche alle elezioni politiche.
Le persone che hanno partecipato alle disobbedienze civili sono 43; la maggior parte delle disobbedienze civili si sono svolte in Italia, mentre il 20 dicembre 2001 a Manchester (UK), alla Stazione di Polizia di Stockport, Marco Cappato compì una cessione di cannabis in solidarietà con il deputato Chris Davies, arrestato per lo stesso motivo.
Un altro arresto, nel novembre del 1990, a New York: Emma Bonino distribuisce siringhe sterili e monouso, per denunciare il divieto che impedisce ad oltre 175mila tossicodipendenti sieropositivi new-yorchesi di acquistare siringhe se non dietro ricetta medica.
Quando si parla di antiproibizionismo radicale non si può limitare però il discorso alle politiche sulle droghe. Era il giugno del 1975 quando Emma Bonino veniva arrestata per disobbedienza civile contro la legge di allora, che vietava l’aborto. Con lei vengono arrestati anche Adele Faccio, Giorgio Conciani e Gianfranco Spadaccia. L’accusa è procurato aborto. Quegli arresti sono il detonatore per imporre l’attualità di una tragedia, quella dell’aborto clandestino, che fino a quel momento tutti, ad esclusione dei radicali, ipocritamente preferivano ignorare. Grazie alla campagna radicale si apre un dibattito politico che porterà alla regolamentazione legislativa dell’interruzione di gravidanza.
Come per la droga, lo scopo non era certo quello di incentivare l’aborto o l’uso di droga; lo scopo era di limitare i danni delle politiche proibizioniste. La stesso ragionamento espresso in anni più recenti da Luca Coscioni, leader della battaglia per la libertà di ricerca scientifica e per la libertà di cura e terapia. Lo stesso ragionamento che ha visto i radicali, guidati in quella lotta da Piero Welby, battersi per la legalizzazione dell’eutanasia.
Ma torniamo al tema delle droghe. Quando molti decenni fa Marco Pannella dichiarava che se dovevamo fare una previsione di come ci sarà una metamorfosi del male totalitario fascista, comunista e via dicendo, il proibizionismo sarebbe stato la nuova reincarnazione di quello che è stato battuto, aveva visto giusto.
Oggi escono studi che attestano come, per esempio, l'aumento esponenziale di sparatorie, decapitazioni e rapimenti che ha accompagnato la guerra alla droga del Governo messicano era scientificamente prevedibile. Bastava aver riletto la copiosa letteratura scientifica sull'argomento.
"Lo rivela uno studio dell'International Centre for Science in Drug Policy, gruppo no profit di scienziati canadesi e britannici che ha esaminato oltre 300 studi internazionali sull'argomento pubblicati negli ultimi 20 anni.
Ogni volta che una comunità tenta di aumentare il livello di repressione dei reati legati agli stupefacenti, si produce un aumento dei profitti delle organizzazioni criminali che operano sul mercato nero. A sua volta, questo provoca un aumento vertiginoso della violenza fra gang e cartelli rivali per il controllo del sempre più lucrativo mercato delle droghe. E ogni volta che un boss del narcotraffico viene catturato o ucciso, spiegano gli studiosi, i sostituiti tendono ad essere più brutali e meno sofisticati del precedente. Insomma, un circolo vizioso di violenza di cui fanno le spese milioni di cittadini innocenti.
Lo studio punta il dito soprattutto sulla spesa per l'apparato repressivo degli Stati. Nella guerra alla droga, infatti, è il sistema giudiziario-repressivo (forze dell'ordine, carceri, tribunali) che riceve la stragrande maggioranza dei fondi pubblici, invece del sistema sanitario e quello educativo.
I ricercatori offrono anche un interessante parallelo fra la guerra messicana alla droga, che ha prodotto decine di migliaia di morti in pochi anni, e il proibizionismo statunitense all'alcool negli anni 1920. Queste esperienze non sono solo accomunate dal proibizionismo, ma anche dal tasso di incremento delle violenza e di arricchimento delle grandi organizzazioni criminali".
Per le stesse ragioni i tre ex presidenti latinoamericani, il brasiliano Henrique Cardoso, il messicano Zadillo e il columbiano Graviria, che già avevano lanciato un appello per la depenalizzazione dell' uso di marijuana, un anno fa a Rio De Janeiro, hanno presentato recentemente le conclusioni di una commissione regionale su Droghe e democrazia in San Paolo. Il verdetto è stato che la guerra alla droga è un fallimento; le reti di trafficanti hanno messo radici e il denaro di questo commercio illegale ha infettato la politica. Gli ex presidenti dei tre paesi più popolosi dell' America Latina, in un programma chiamato Droghe e democrazia, propongono un punto di vista diverso del problema della droga: che il consumo sia visto più come un problema di salute pubblica che penale, che si consideri la depenalizzazione delle droghe leggere, e si continui a combattere il traffico, come un elemento essenziale della criminalità organizzata transnazionale; considerare gli effetti della corruzione nel traffico e la sua penetrazione nel campo politico.
Nel dicembre 2009 l'ENCOD (European Coalition for Just and Effective Drug Policies), in Europa, ha pubblicato alcune note sul rapporto "Drug Decriminalization in Portugal. " dell' Istituto di ricerca americano Cato Institute (Washington DC). Il rapporto mette insieme sette anni di dati, dalla depenalizzazione del consumo di droghe, avvenuta nel luglio 2001, che ha riguardato l'acquisto, il possesso e il consumo di tutte le droghe senza eccezioni, eroina e cocaina incluse. Una legge che non ha paragoni al mondo. Glenn Greenwald, uno dei 25 costituzionalisti liberali più influenti degli Usa, e giornali come The Economist hanno sottolineato i buoni risultati dell'esperienza portoghese. Da quella data in Portogallo il consumo di droghe non è un reato, ma una violazione soggetta a una sanzione amministrativa, cioè una multa. L'uso personale è multato, mentre i dipendenti o consumatori regolari sono inviati alla "Commissione per disincentivare il consumo di droga", formata da un giudice, uno psicologo e un assistente sociale. Il personale di questi servizi è addestrato psicologicamente e socialmente a misurarsi con casi di tutti i tipi, specialmente con quelli più difficili. Gli operatori hanno imparato che trattare il consumatore come un essere umano meritevole di rispetto produce risultati quasi immediati. In questo modo il contatto con i consumatori è affidato non alle forze dell'ordine ma alla responsabilità di personale specializzato; trattare i tossicodipendenti come membri a pieno titolo della società al posto della stigmatizzazione di una accusa penale in tribunale. Si evita tutto l'armamentario consueto del sistema giudiziario e penitenziario; i membri della "Commissione di dissuasione" vestono in modo informale, e sono tenuti per legge a rispettare in ogni momento i diritti del reo. Il consumatore non è più visto come un criminale, ma come un paziente: col risultato di spingere i consumatori problematici a rivolgersi ai servizi socio-sanitari.
Gli esiti della depenalizzazione dell'uso sono decisamente positivi; per esempio, il numero dei decessi droga-correlati, che nel corso degli anni novanta era andato aumentando, è passato da 400 nel 1999 a 290 nel 2006. E, citando ancora il rapporto, a partire dal 2001 il numero di nuovi casi di Hiv e Aids tra i tossicodipendenti è ogni anno in forte calo. "Gli esperti - spiega l'autore Glenn Greenwald - attribuiscono questi trend positivi all'aumentata capacità del governo portoghese di offrire programmi di trattamento ai cittadini: un aumento reso possibile, per svariate ragioni, dalla depenalizzazione".
I tassi di prevalenza (cioè quante persone hanno utilizzato una specifica droga durante la loro esistenza), sono scesi nella maggior parte delle categorie, rispetto a prima che la normativa fosse approvata.
Una precedente relazione dalla Fondazione Beckley nel 2007 arrivava alle stesse conclusioni di Greenwald, in particolare, che la decriminalizzazione ha di fatto spostato l'attenzione su una strategia di prevenzione e di trattamento ed è riuscita a ridurre i problemi derivanti dall'uso di droga.
In una intervista dello scorso gennaio Joao Goulao, presidente dell' Instituto de Droga y Toxicomania (IDT), agenzia governativa portoghese, ha raccontato la sua esperienza: ha cominciato ad occuparsi di tossicodipendenza, come medico, quando alla fine degli anni ottanta la droga invase la società portoghese; dopo aver seguito un corso pratico nella capitale, ha aperto un centro d'assistenza ad Algarve. Dal 1987, e per due decenni, ha lavorato alla prevenzione, al trattamento e al reinserimento dei drogati e oggi coordina la lotta antidroga del suo Paese; da un mese l'Ue-27 l'ha eletto presidente dell'Osservatorio Europeo per le Droghe e le Tossicodipendenze (OEDT) che ha sede a Lisbona.
All'epoca, gli ambienti più conservatori pronosticavano niente meno che l'apocalisse. "Arriveranno aerei zeppi di studenti per fumare marijuana, sapendo che non andranno in prigione. Gli promettiamo sole, spiaggia e la droga che desiderano", diceva il deputato di destra Paulo Portas. Nessuna delle terribili previsioni si è verificata. Tutt'altro, il consumo delle droghe è diminuito, "soprattutto tra i più giovani - racconta Joao Goulao - I nostri risultati vengono analizzati in altri Paesi. Argentina, Messico e Repubblica Ceca hanno preso spunto dalla nostra linea".
Sulla stessa linea una intervista di pochi giorni fa al brasiliano Alexandre Addor Neto, dirigente della OAS (Organization of American States), pubblicata sulla "La Voz de Galicia". Neto riferisce dell' incontro della Commissione Interamericana per il Controllo dell' Abuso di Droghe (Cicad), aderente all' IDT, svoltosi a Lugo, in Spagna, dal 21 al 23 aprile, fra sindaci e rappresentanti di 40 città e 34 paesi europei, latino americani e caraibici, per scambiarsi le esperienze in materia di riduzione della domanda di droghe, alla quale ha partecipato anche l’organizzazione di Droga y democrazia, quella di Barroso, Zadillo, Graviria.
Appare evidente, infatti, a un sempre maggior numero di autorevoli dirigenti politici, ma anche rappresentanti delle forze dell’ordine e funzionari delle agenzie per le droghe, oltre al fallimento delle politiche di repressione avviate da Bush una decina di anni fa, il legame tra le politiche sulle droghe e la democrazia. Soltanto nell’ultimo mese abbiamo letto le dichiarazioni di un giudice, di politici messicani, del capo della polizia di Columbia. Leggiamo le loro parole e quelle del rappresentante di Law Enforcement Against Prohibition.
"Un ex giudice della Corte Suprema australiana ha rivolto un appello affinché le sostanze stupefacenti siano legalizzate. Kenneth Crispin, in una intervista all'emittente televisiva ABC, ha detto che il divieto sulle droghe da sballo costituisce un fallimento ancora più grande del proibizionismo sull'alcool negli Stati Uniti degli anni 1920.
"Il consumo di droga è esploso durante il periodo della guerra alla droga", ha spiegato. "In ogni parte del mondo, le leggi più repressive tendono ad avere l'effetto di essere accompagnate dai più alti livelli di consumo".
Il prezzo delle sostanze vendute per strada è invece diminuito nonostante la repressione, continua Crispin. La cocaina, per esempio, costa un sesto rispetto a quando è cominciata la guerra alla droga.
Crispin ha spiegato di essere giunto alla conclusione di legalizzare le droghe "con incredibile riluttanza".
Alla domanda sulla possibile risposta della classe politica alla sua proposta, l'ex giudice supremo ha risposto con pessimismo: i politici temono troppo l'impopolarità".
Qualche mese fa, nel dicembre 2009, "un dirigente di polizia americano ora in pensione ha detto ad una platea di Sydney che la guerra alla droga è stata un fallimento e un disastro per le forze di polizia.
Norm Stamper, ex capo della polizia di Seattle nel 2000, è portavoce dell'associazione di polizia Law Enforcement Against Prohibition, un organizzazione statunitense in continua crescita composta da 13.000 agenti di polizia, guardie carcerarie, pubblici ministeri e giudici.
Stamper spiega che da quando Richard Nixon ha dato avvio alla guerra alla droga nel 1971, il motivo più frequente di arresto di giovani americani è diventato il reato non-violento legato al possesso o consumo di droga. Milioni di cittadini sono stati incarcerati, con effetti spesso devastanti per loro e le loro famiglie. Per questo si è creata una contrapposizione insanabile tra la polizia e molti americani che altrimenti rispettano la legge.
"La polizia ha bisogno di partnership con la comunità", ha detto Stamper. "Se stai per ottenere delle informazioni di cui hanno bisogno per combattere la criminalità, c'è bisogno di un forte senso di fiducia. Ma con decine di milioni di giovani americani che sono stati arrestati per reati non-violenti legati alla droga, c'è la diffusa percezione che la polizia sia lì per colpire la gente, piuttosto che aiutarla.
"Se ad esempio si è a lavoro su un omicidio non legato alla droga e si spera che i cittadini si facciano avanti con delle informazioni sull'assassino, spesso la porta ci viene sbattuta in faccia a causa di una infelice esperienza con la polizia nel corso di un arresto per droga."
Stamper ha anche affermato che la guerra ha incoraggiato condotte illegali da parte della polizia, che va dalle perquisizioni illegittime al coinvolgimento nel traffico di droga. Questo ha minato ulteriormente la fiducia della gente nelle forze dell'ordine.
Anche la guerra alla droga in altri Paesi ha danneggiato le forze dell'ordine. In Messico ha portato alla corruzione su vasta scala e migliaia di omicidi da parte dei cartelli della droga. Molte delle vittime sono poliziotti, spesso torturati e decapitati", ha detto Stamper. "Sostanzialmente, i poliziotti onesti in Messico hanno questa scelta: possono cooperare con i cartelli o possono morire. Questa è una diretta conseguenza del modello proibizionista della guerra americana alla droga".
Al confine con il Messico, infatti, sono sempre di più i politici statunitensi convinti della necessità di legalizzare la droga per combattere i devastanti effetti del proibizionismo. La guerra alla droga in Messico ha provocato decine di migliaia di morti in poco piu' di tre anni, le organizzazioni criminali si sono rafforzate e secondo tutte le stime ufficiali stanno ormai prevalendo grazie al mercato nero delle droghe. La violenza sta ormai debordando negli Usa".
"Una coalizione di politici della città di El Paso, al confine con la città gemella Juarez a sud del confine, ha chiesto la legalizzazione della cannabis per ridurre la violenza e indebolire i cartelli della droga.
Oscar Martinez, docente di storia e esperto di questioni relative alle frontiere all'Università dell'Arizona, ha letto il manifesto dei consiglieri comunali a cui egli stesso ha aderito: "Coloro che rivendicano una moralità più alta nel sostenere il proibizionismo sulle droghe non pongono sufficiente attenzione sulle conseguenze disastrose di questa politica tragicamente sbagliata", ha spiegato Martinez. "La cura si è rivelata molto più letale della malattia stessa. Il prezzo del proibizionismo -trasformare città come Juarez in campi di sterminio di proporzioni enormi- è totalmente inaccettabile e moralmente ripugnante".
Con il gruppo di rappresentati locali si è schierato anche il deputato statale Marisa Marquez, democratica eletta a El Paso. "C'ero anch'io a sostenere questa nuova risoluzione perché chiede il riconoscimento della dignità delle persone che vengono uccise a Juarez. Non possiamo ignorare la violazione dei diritti civili e le atrocità che stanno occorrendo", ha detto.
Solo a Juarez, dal 2008 sono state uccise 5,150 persone".
"Il capo della polizia della città di Columbia, nello Stato del Missouri, si è detto favorevole alla legalizzazione della cannabis. Rispondendo alle domande dell'avvocato Dan Viets, membro dell'associazione per la legalizzazione Norml, Ken Burton ha detto: "Sono con voi in questa battaglia, e spero che abbiate successo prima o poi, e poi vedremo come va". "Sono sicuro che ci sono molti poliziotti che sarebbero felici" se la cannabis fosse legalizzata".
"Dopo 40 anni, la guerra alla droga lanciata dagli Stati Uniti è costata mille miliardi e centinaia di migliaia di vita, e per cosa? Il consumo di droga è rampante e la violenza ancora più brutale e diffusa.". E' questo il giudizio sul proibizionismo dell'agenzia di stampa Associated Press nella celebre quanto temuta rubrica di analisi politica IMPACT. (vedi messaggio di Trebach).
L'editoriale, non firmato, presenta una durissima critica sulle politiche antidroga dell'amministrazione Obama, colpevole di voler proseguire sulla strada dei suoi predecessori.
"Questa settimana il Presidente Obama ha promesso di 'ridurre il consumo di droga e il grave danno che causa' con una nuova strategia nazionale che tratterà il consumo di droga come una questione di pubblica sanità", scrive l'AP. "Ma la sua Amministrazione ha aumentato i finanziamenti alle autorità giudiziarie e di polizia a livelli record, sia in termini assoluti di dollari sia in termini percentuali; quest'anno, l'apparato repressivo riceverà 10 miliardi dei 15,5 disponibili per il controllo della droga".
L'analisi prosegue snocciolando origine, cifre e dati di una delle più fallimentari, costose e dannose politiche del XX e XXI secolo".
Appaiono ormai evidenti le interconnessioni fra antiproibizionismo, nonviolenza e democrazia; c’è molta vicinanza fra il concetto di antiproibizionismo, contrapposto a metodi di regime, contrapposto al potere autoritario, l’antiproibizionismo nella sua valenza di strategia di governo dei fenomeni sociali attraverso le armi nonviolente della comunicazione, dell’informazione, della legalità e della legalizzazione, fra l’antiproibizionismo e la nonviolenza da una parte e fra antiproibizionismo e democrazia dall’altra.
Certo che la legalità è sempre stata la bussola per i radicali, ma quando la legalità è solo descritta ma non è presente, ci vuole il ricorso a forme diverse e più incisive di lotta nonviolenta, come sono stati gli strumenti di democrazia diretta, referendum, proposte di legge di iniziativa popolare, petizioni, appelli e il ricorso ad azioni di disobbedienza civile e scioperi della fame e della sete. Per questo le iniziative parlamentari radicali antiproibizioniste su aborto, droga e prostituzione, portate avanti con testardaggine dai radicali negli ultimi 40 anni, hanno sempre avuto bisogno del sostegno della nonviolenza nelle forme di obiezione di coscienza, disobbedienze civili, digiuni, per riuscire ad ottenere significativi ma parziali, e spesso non attuati, risultati.
Prima ricordavo le prime le disobbedienze civili in tema di aborto. Il nodo centrale dell’iniziativa radicale era non certo quello di incentivare le donne ad abortire, bensì la riduzione di quella che era una piaga sociale, l’aborto clandestino, attraverso la legalizzazione, l’informazione, la comunicazione. Le conseguenze peggiori della legge proibizionista che allora vigeva, le subiva chi non aveva i soldi per andare a interrompere la gravidanza a Londra, o in una delle numerose cliniche italiane compiacenti. Il proibizionismo, quindi, come strategia classista produttrice di diseguaglianza, privilegi ed eccezioni, anche in questo senso antidemocratico.
I regimi autoritari hanno bisogno di conservare il potere con la paura e con le punizioni, con la repressione economica, con la limitazione dei diritti civili,con i privilegi e con le dinamiche di casta; una democrazia compiuta trova nel dibattito pubblico e nella libera informazione l’antidoto alla degenerazioni violente e alle crisi di sistema.
Quindi un doppio legame: da una parte l’antiproibizionismo come strategia di governo democratico dei fenomeni sociali proposto in alternativa ai metodi proibizionistici violenti propri dei regimi autoritari, dall’altra la nonviolenza e le disobbedienze civili come forme di partecipazione diretta del cittadino al perfezionamento della democrazia.
Negli ultimi anni è stata intrapresa, dai radicali, un’azione sulle convenzioni ONU, che dal 1961 stanno a determinare le strategie proibizioniste; in questa direzione si muove la LIA, Lega Internazionale Antiproibizionista, della quale abbiamo qui il Segretario, Senatore Marco Perduca. Solo che le convenzioni ONU per poter essere cambiate, hanno bisogno della spinta che è venuta dal diffondersi, in tanti paesi, di informazione sugli effetti disastrosi di tali politiche.
Abbiamo visto, negli ultimi giorni, i disordini che si sono scatenati in Jamaica, dove "Christopher 'Dudus' Coke, il boss della droga giamaicano al centro degli scontri che sull'isola caraibica hanno provocato tra i 50 e i 60 morti, potrebbe essere fuggito all'estero.
Lo scrive sul suo sito web il quotidiano britannico Daily Telegraph citando il ministro dell'interno giamaicano Darykl Vaz. 'Non so se sia ancora in Giamaica, e' molto difficile dire', ha affermato.
Coke e' ricercato negli Stati Uniti, dove dovrebbe essere estradato. La battaglia di Tivoli, il ghetto dove i narcos dettano legge, e' esplosa quando la polizia e' andato a cercarlo per consegnarlo agli americani. 'La situazione a Tivoli resta drammatica, da molto tempo la tensione covava sotto la cenere e tutti sapevano che se le autorita' si fossero mosse per arrestare Coke sarebbero stati guai', ha detto al Telegraph Susan Goffe, portavoce della associazione per i diritti umani 'Jamaicans for Justice'.
In tutto questo il premier della Giamaica, Bruce Golding, e' passato al contrattacco, dopo diversi articoli di questi ultimi giorni da parte della stampa internazionale, che ha riferito su legami tra il capo di governo e il narcotrafficante Christopher 'Dudus' Coke.
Golding ha smentito tali nessi, denunciando nel contempo una 'cospirazione' contro il suo governo, rispondendo in particolare alle accuse formulate dalla rete americana Abc e dal quotidiano britannico The Indipendent, secondo il quale Golding e' di fatto 'un affiliato' all'organizzazione criminale guidata da 'Dudus'.
Molti altri media hanno d'altra parte sottolineato che per molti mesi il premier non ha dato ascolto a Washington, che ha chiesto l'estradizione di Coke ormai piu' di un anno fa, rilevando che lo stesso capo del governo ha poi cambiato tale posizione, e dato il via libera all'estradizione la scorsa domenica: giorno in cui e' scattata a Kingston la rivolta delle gang controllate da Coke al fine di bloccare il suo trasferimento a New York, dove il capo narco e' accusato di traffico di droga e armi".
Già nel 2008, partecipando a Bruxelles ad un seminario sui mercati illeciti delle droghe, ho ascoltato Fernando Henrique Cardoso, ex presidente, illustrare come nella realtà brasiliana il mercato delle droghe si intrecci con la corruzione politica e con la criminalità e la violenza. I trafficanti sono dotati di una milizia parallela e arrivano ad influenzare i mass media e lo stesso parlamento e i tragici costi in vite umane muovono ad un ripensamento delle politiche repressive radicate in visioni ideologiche; se l’argomento è tabù, per ridurre i costi per la società occorre secondo Cardoso partire dai dati applicando lo stesso pragmatismo che ha guidato la lotta all’HIV, permettendo una legalizzazione delle droghe per chi accetti di affrontare cure e programmi di recupero, affidando i tossicodipendenti al sistema sanitario e non più a quello carcerario, depenalizzando le piccole quantità di cannabis. Una visione reale che non sia ostaggio di pregiudizi.
Una visione reale che si è ulteriormente allargata, nello stesso seminario, con l’intervento di Jorrit Kamminga, dell’ ICOS ( International Council on Security ); una relazione sullo stato del progetto “Papavero come medicina”, iniziato nel 2005 e che ha portato, nel 2007, il parlamento europeo ad adottare a larghissima maggioranza una raccomandazione sulla “possibilità di progetti pilota per una conversione su piccola scala di parti della attuale coltivazione illecita di papavero in produzione di oppio legale analgesico” , presentata da Marco Cappato e dall’ALDE. Il progetto parte dalla constatazione di come l’ Afghanistan si sia confermato negli ultimi anni maggiore produttore di oppio mondiale e la maggior fonte di eroina; nonostante gli sforzi di contrasto messi in atto dal 2002 ad oggi, con consistenti impegni delle comunità internazionali, la coltivazione di papavero e la produzione di oppio è in continuo aumento, superando ogni anno i suoi stessi records.
Il mercato dell’oppio si intreccia strettamente con l’economia e con la politica di quella zona, e incide negativamente sulle possibilità di ricostruzione e di sviluppo. La distruzione delle coltivazioni, che ha comportato sforzi economici e inquinamento ambientale, non solo non è servita a fermare l’espandersi della produzione, ma ha generato fra gli effetti secondari l’assurgere dei talebani, che offrono aiuti economici e supporto alle famiglie di coltivatori colpiti dalle eradicazioni, al ruolo di salvatori del popolo contadino. La relazione dice molto chiaramente che “in Afghanistan, le attuali politiche di guerra alla droga sono in contrasto con i progetti delle comunità internazionali di stabilizzazione, sviluppo e ricostruzione”. L’importanza della riflessione su questo per la Comunità Europea deriva dall’impegno economico assunto nei confronti di quel paese e dal fatto che la maggior parte dell’eroina afghana è destinata al mercato europeo.
E dalla Cina arriva la notizia che "i tossicodipendenti cinesi subiscono pestaggi sistematici, ricatti, e sono spesso costretti al lavoro forzato, secondo un rapporto diffuso nel gennaio di questo anno dal gruppo umanitario Human Rights Watch. Secondo il rapporto, che si intitola 'Tenebre senza limiti', la nuova legge sulla droga varata dalla Cina nel 2008 consente di tenere i drogati rinchiusi fino a sette anni nei cosiddetti 'centri di riabilitazione', in realta' delle prigioni nelle quali i tossicodipendenti 'non godono neanche dei diritti degli altri detenuti'. I drogati possono essere inviati nei 'centri di riabilitazione' dalla polizia e restare rinchiusi dai due ai sette anni senza nessuna supervisione delle autorita' giudiziarie.
'Invece di mettere in atto una vera terapia per il trattamento della dipendenza dalla droga, la nuova legge cinese espone le persone sospettate di fare uso di droga alla detenzione arbitraria e a trattamenti inumani', afferma Joe Amon, uno degli estensori del rapporto. Gli esperti di Human Rights Watch hanno studiato le condizioni dei tossicodipendenti in due delle province cinesi dove la droga e' piu' diffusa, quello dello Yunnan e del Guangxi che si trovano nel sud della Cina, non lontane dal 'triangolo d'oro' della droga formato da Birmania, Laos, Vietnam e Thailandia.
'Mettere un gran numero di tossicodipendenti nello stesso posto, costringerli al lavoro forzato e a subire violenze fisiche non e' 'riabilitazione'', conclude il rapporto".
In conclusione, considerato quindi come il discorso sulla democrazia non possa prescindere da un approfondimento sulle politiche repressive e proibizioniste, riguardo alle droghe ma non solo, la mia proposta è di prendere contatto con quelle persone e organizzazioni che si stanno muovendo nella direzione da noi indicata fino da 40 anni fa, per coinvolgerle nel Congresso che terremo a novembre; così come la moratoria sulla pena di morte, la battaglia antiproibizionista ha bisogno oltre che dell’azione diplomatica e giurisdizionale anche di quella nonviolenta radicale.
Se infatti è vero, come ha detto ieri Emma, che non esiste democrazia senza legalità, come rompere il circolo vizioso in quei paesi dove non c’è né democrazia né legalità, o in quelli, come l’ Italia, dove la democrazia è solo teorica e la legalità è violata ogni giorno, se non con le armi nonviolente radicali?
Di contro c’è il peso della violenza quotidiana, degli sprechi enormi di denaro pubblico, di milioni di morti in tutto il mondo prodotti da politiche cieche che ingrassano la criminalità e la corruzione e non proteggono i diritti dei consumatori, costretti a rifornirsi in un mercato illegale, quindi non controllato.
In attesa dunque di novembre, del Congresso, dell’ elezione di un Segretario che finalmente possa dettare la linea politica al Partito, stiamo lavorando, ma Marco Pannella non ama il gerundio, lavoriamo, dunque, insieme con Piero Capone, che oggi non ha potuto essere con noi e al quale rivolgo un affettuoso saluto, al Prof. Mario Patrono e, ovviamente a Marco Perduca, per prendere e consolidare vecchi e nuovi contatti.
Viva il Partito Radicale Transnazionale
Viva Marco Pannella.
Claudia Sterzi, militante del PRT