4 marzo 2008

UNA GIORNATA QUALSIASI

Brutto rospo; duro da buttar giù, che quasi non ci si faceva. Con la faccia di Walter e la panza di Bettini. Un gran brutto rospo.
Sabato scorso, al Comitatone RI-ALC, è stato un incubo; già la domenica precedente, era chiaro che avevano vinto loro. E questa evidenza diventava nei giorni lampante. Hanno vinto loro.
Pieni di debiti, umiliati e offesi, sconosciuti ai più nel nostro impegno e nelle nostre idee, sconfitti da trappoloni e colpi bassi in una battaglia dove le regole non vengono scritte e sono continuamente infrante. Esagero? Non mi pare.
Non importa fare qui la cronistoria di tutte le scorrettezze che abbiamo dovuto subire nel cosiddetto agone politico; chi ci crede, lo sa già. Chi non ci crede, non ci crederà certo perché lo scrivo io.
Sabato, mentre la giornata scorreva, radicali doc da decenni, che pochi giorni prima si erano dichiarati pronti a raccogliere di nuovo migliaia di firme per la strada, a spese proprie e tra difficoltà di ogni genere, ad uno ad uno cedevano le armi: non c’è altra scelta, non c’è alternativa, non si può far altro.
Eppure, anche se ormai è tardi, la prontezza di Veltroni nel suo controproporre ci poteva far pensare che un po’ di paura ce l’aveva, di una lista nostra. Mica l’avrà fatto solo per amor di Emma di pagare 3 milioni di euro per nove cammelli radicali; mica pensa a vincere. Se pensava a vincere accettava la nostra proposta, Lista Bonino collegata a Veltroni premier.
Perché spendere il suo migliore venditore in prima battuta in incontri vestagliati nel loft, perché trattare con pervertiti e con vacche ignude? Gratis nessuno cede tre milioni, a questi chiari di luna.
Nel giro di poche ore, sabato, quasi tutti si sono ipnotizzati su una visione nella quale Veltroni scendeva dall’Olimpo e ci porgeva la mano salvandoci dall’inferno pannelliano. Una pazzia totale, un viraggio completo.
Era come se Wanna Marchi ci avesse convinto che senza il suo aiuto la nostra famiglia sarebbe morta tra atroci sofferenze: non c’è altra scelta, ci ripetevamo l’uno con l’altro, non possiamo far altro.
E dopo aver protestato, dopo aver, chi più chi meno, espresso tutto il disgusto e la rabbia che ci salivano su, umilmente, come un grande corpaccione collettivo agonizzante ma pieno di entusiasmo, nel suo significato etimologico, abbiamo votato unanimi come non accadeva da tempo. Una esperienza totale.
Poi, come sempre, ognuno a casa sua. A spiegare ai parenti, ai figli e ai nonni, al bottegaio al barista ai colleghi che ancora una volta non siamo come gli altri, non lo saremo mai. Che non ci siamo venduti, che non siamo casta, che non abbiamo poltrone né sgabelli.
Ad affrontare l’ira feroce dei simpatizzanti cosiddetti, quelli che non si sono mai iscritti ma l’avrebbero fatto se. Se.
A rimuginare sui ceceni, sui montagnard, sugli uiguri e sui carcerati, sulla miseria e sulla democrazia che non c’è. Sui paradossi estremi della nostra vita politica e personale.
Una giornata storica, la firma dell”accordo”?
Una giornata qualsiasi, una delle tante giornate di regime.
Da domani si ricomincia. Anzi, da subito.

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