DEMCAMP, intervento con aggiunte.
Buongiorno; vorrei intrattenervi una decina di minuti sulle interconnessioni fra antiproibizionismo, nonviolenza, democrazia,
e suscitare qualche riflessione sul tema delle azioni nonviolente come strumenti di partecipazione democratica diretta ed attiva.
L’ occasione che è stata di spunto è la costituzione dell’associazione radicale antiproibizionisti, della quale sono segretaria. Fin dall’inizio di questa esperienza ho considerato quanta vicinanza ci fosse fra il concetto di antiproibizionismo, contrapposto a metodi di regime, contrapposto al potere autoritario, l’antiproibizionismo nella sua valenza di strategia di governo dei fenomeni sociali attraverso le armi nonviolente della comunicazione e dell’informazione, fra l’antiproibizionismo e la nonviolenza da una parte e fra antiproibizionismo e democrazia dall’altra.
Fra le prime azioni nonviolente radicali molto rilievo ebbero, per esempio, ma sono ormai state dimenticate, le disobbedienze civili in tema di aborto. Il nodo centrale dell’iniziativa radicale era non certo quello di incentivare le donne ad abortire, bensì la riduzione di quella che era una piaga sociale, l’aborto clandestino, attraverso la legalizzazione, l’informazione, la comunicazione. Le conseguenze peggiori della legge proibizionista che allora vigeva, e vorrei ricordare, perché non è passato un secolo, ma soli 35 anni, che le donne ricoverate in ospedale per le complicazioni degli aborti clandestini venivano piantonate dai carabinieri che ne attendevano la dimissione per portarle in galera fra gli insulti che tutti si permettevano di rivolger loro, le conseguenze peggiori le subiva chi non aveva i soldi per andare a interrompere la gravidanza a Londra, o in una delle numerose cliniche italiane compiacenti. Il proibizionismo, quindi, come strategia classista produttrice di diseguaglianza, privilegi ed eccezioni, anche in questo senso antidemocratico; come dimostra anche l’ultima deriva proibizionista sulla droghe di Giovanardi & Co., nel suo voler sottoporre a test antidroga tutte le categorie fuori che, guarda caso, i parlamentari, le forze dell’ordine, i medici, cioè gli stessi che comandano ed eseguono il test a tutti gli altri.
I regimi autoritari hanno bisogno di conservare il potere con la paura e con le punizioni, con la repressione economica, con la limitazione dei diritti civili, con i privilegi e con le dinamiche di casta; una democrazia compiuta trova nel dibattito pubblico e nella libera informazione l’antidoto alla degenerazioni violente e alle crisi di sistema.
Purtroppo l’involuzione partitocratica della democrazia italiana non garantisce una libera circolazione delle classi dirigenti, perché ne limita l’accesso ed è viziata da nepotismo, clientelismo e familismo amorale. Lo strumento legislativo parlamentare rimane appannaggio di una maggioranza consolidata di potere, trasversale allo schieramento politico, di una classe dirigente che si autoriproduce da secoli.
Le teorie elitiste già dagli inizi del ‘900 hanno individuato il suffragio universale come necessario ma non sufficiente a garantire la democrazia; la democrazia rappresentativa finisce per selezionare una élite che non rappresenta affatto tutte le componenti della società bensì quelle già dominanti. Per questa ragione fu introdotto uno strumento per la correzione e il bilanciamento in favore della democrazia diretta, la seconda scheda, quella referendaria, strumento fortemente sostenuto e incentivato dai radicali, purtroppo svuotato e tradito. Svuotato di significato dagli inviti all’astensione, reso inattuabile dalle procedure estenuanti necessarie per proporlo, avvilito dalla mancata e corretta informazione, tradito più volte nei risultati.
Quindi un doppio legame: da una parte l’antiproibizionismo come strategia di governo democratico dei fenomeni sociali proposto in alternativa ai metodi proibizionistici violenti propri dei regimi autoritari, dall’altra la nonviolenza e le disobbedienze civili come forme di partecipazione diretta del cittadino al perfezionamento della democrazia.
Per questo le iniziative parliamentari e referendarie radicali antiproibizioniste su aborto, droga e prostituzione, portate avanti con testardaggine dai radicali negli ultimi 40 anni, hanno sempre avuto bisogno del sostegno della nonviolenza nelle forme di obiezione di coscienza, disobbedienze civili, digiuni, per riuscire ad ottenere significativi ma parziali, e spesso non attuati, risultati.
Insegnano i moderni maestri della sociologia che laddove un argomento di dibattito pubblico coinvolge profondamente ed emotivamente le persone è più frequente una polarizzazione estrema fra due atteggiamenti assoluti integralisti e contrapposti; i particolari e le eccezioni vengono rimossi dalla coscienza collettiva e l’argomento svuotato di contenuti viene offerto in simbolico pasto alle configurazioni di potere. Così per le mutilazioni genitali femminili l’opinione pubblica si è divisa fra assolutisti dell’ aumento delle pene e relativisti di “è la loro cultura”; così per le droghe non si va oltre la posizione “drogarsi è reato”, contrapposta a quella “lasciamo fare”; così nella politica internazionale i guerrafondai si contrappongono ai no global arcobaleno ecc.
L’antiproibizionismo e le armi nonviolente della informazione e della comunicazione, la libera circolazione delle idee, delle élites, delle merci e delle persone fanno intravedere una via di uscita e un antidoto alla violenza e all’integralismo che ci travolge.
Sono personalmente una disobbediente civile che si è presa quattro mesi di condanna, indultata, per cessione di canapa nel corso di una disobbedienza civile sul tema della canapa terapeutica; ho partecipato lo scorso anno ai lunghi scioperi della fame che hanno accompagnato la approvazione della risoluzione per la moratoria universale della pena di morte e sono anche oggi in sciopero della fame per la elezione di un giudice costituzionale e del presidente della commissione vigilanza della rai. Lo dico perché sono stati, per me, momenti nei quali mi sono sentita finalmente cittadina attiva.
La deriva proibizionista e autoritaria deve essere arginata e ridotta, reindirizzata; è una strategia fallimentare e criminale, che produce giri di interessi e di denaro, gran parte “al nero”, e dirige in senso distruttivo e non democratico, ingenti risorse. In nome della strategia proibizionista siamo arrivati alla violazione dei diritti dei malati laddove non hanno libero accesso ai farmaci, alla violazione del diritto del cittadino ammalato o no alla libera determinazione dei propri comportamenti privati, nell’impedimento alla coltivazione domestica anche di una sola pianta di canapa, anche a malati con prescrizione medica.
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